LEONORA ADDIO, l’ultimo film di Paolo Taviani
di Riccardo Ferrucci - martedì 28 giugno 2022 ore 08:00
Taviani e Pirandello. Di nuovo. Dopo Kaos, dopo Tu ridi. Questa volta però c'è solo Paolo, Vittorio se n'è andato qualche anno fa: ma in questo film comunque si sente. Leonora Addio si chiama il film, che però non ha nulla a che vedere con la novella omonima dello scrittore siciliano. Verrebbe da dire che il titolo, oltre che per affinità pirandelliana, sia stato scelto per quella seconda parola, addio, la più pertinente in un film che parla di congedi, dolenti ma dignitosi, dalla vita. Si comincia: bianco e nero, un teatro, il Nobel consegnato a Stoccolma a Pirandello nel 1934, e poi lo scrittore a letto in una stanza grande e spoglia, i suoi figli che entrano dalla porta in fondo, bambini, e crescono e invecchiano man mano che si avvicinano al suo capezzale, mentre lo scrittore riflette sulla vita e la sua inarrestabile velocità. Sembra quasi di stare in 2001.
E poi la morte. Le ceneri. Bloccate a Roma dalla guerra e dal fascismo, da riportare in Sicilia (responsabile del trasposto: Fabrizio Ferracane) nel corso di un viaggio pieno di piccole, minimali avventure: una jeep che corre sull'Appia Antica tra le biciclette, un aereo che non parte per scaramanzia, un viaggio in treno verso il sud, in un vagone di terza classe che costa forse dolore e spavento (ma l'emigrazione arriva dopo), ma è pieno di speranza e sogno di un futuro migliore. E ancora: la sfilata delle ceneri in città dentro una bara da bambino, la lunga, lunghissima realizzazione del mausoleo dove sono ancora oggi custodite.
Per Paolo Taviani, il viaggio rocambolesco delle ceneri del grande drammaturgo è un viaggio nella vita, nella storia e nel cinema di questo paese.Dentro il suo film, dentro il bianco e nero fotografato da Paolo Carnera, il regista inserisce quasi sperimentalmente brani e pezzi di film famosissimi: da Paisà a L'avventura, daEstate violenta a lo stesso Kaos. La dialettica, costante, riguarda quella tra la vita e la morte, tra chi se n'è andato e chi è rimasto, tra quello che era e quello che sta diventando: l'uomo, il paese, il pensiero, l'umanità.Anche quando il film cambia, abbandona il bianco e nero per abbracciare il colore (Simone Zampagni alla fotografia) e raccontare un'altra storia, quella di "Il chiodo", l'ultimo racconto di Pirandello, la dialettica rimane quella. Sì, certo, c'è il dolore dell'emigrato, ma c'è soprattutto quella scena finale, con un uomo responsabile di una morte che vede le stagioni della vita passare di fronte a una tomba sempre immobile e immutabile.
E poi di nuovo teatro, applausi, chiusura. Paolo è rimasto, Vittorio se n'è andato. Il cinema dei Taviani è rimasto lo stesso, eppure diverso, ma lo stesso. Con la lingua dell'arte, dell'astrazione, della trasformazione del reale si riflette sul mondo, sul cinema, sulla morte. Sugli addii di ieri e quelli di domani.
È l’ultima prova di un cinema di poesia che ha pochi paragoni e che trova nell’armonia e nell’equilibrio le ragioni profonde di una poesia e di una rinascita. Paolo Taviani riesce a darci una nuova lezione di arte e misura giocando con il tempo e lo spazio, con i ricordi e le ferite del nostro tempo.
Come diceva Rondi “Con La notte di San Lorenzo hanno invece rivoluzionato il cinema, il cinema italiano e la loro stessa creatività. Hanno, cioè, aperto nel cuore degli anni ottanta una breccia attraverso la quale passerà d’ora in poi non solo il loro cinema, ma tutto il cinema di poesia.” A distanza di quarant’anni il loro film sembra realizzato adesso e mantiene una leggerezza ed una freschezza autentica. Paolo e Vittorio si confermano come autori più rappresentativi del cinema di poesia, insieme a pochi altri autori come Tarkovskij e Fellini.
Riccardo Ferrucci