Paradossi e dilemmi dei critici antipatici
di Roberto Cerri - giovedì 29 gennaio 2015 ore 13:35
Forse l’argomento interessa poco, ma ha di sicuro ricadute su molti. Parlo dell'esercizio della critica rispetto a ciò che si legge. Una pratica minoritaria, sostituita sempre di più dalle performance di istrioni più o meno colti, che presentano sul mercato, in forma piaciona, solo quello che venditori, istituzioni (anche culturali) e autori vogliono far arrivare al pubblico.
Il fenomeno è diffuso. Così alla tradizionale “partigianeria” (del “critico” schierato per stipendio o per ideologia) si affianca adesso una penosa sudditanza non solo ai poteri forti, ma anche a quelli deboli. La cosa dilaga nelle capitali della cultura, sui media (a cominciare dalla TV), ma anche nei piccoli centri della periferia. Si, per quanto possa suonare buffo, anche in provincia l'atteggiamento di chi legge con una certa autonomia e fa le bucce a chi scrive e a chi pubblica, non piace e quindi l’esercizio critico é scarsamente praticato.
Detto questo, va aggiunto che oggi criticare pubblicamente un libro è un atto quasi privo di
senso. Nel sistema comunicativo che ormai ci avvolge, una critica aperta e motivata rischia di trasformarsi in uno spot pubblicitario a favore del testo. La reazione del pubblico ad una
stroncatura ben fatta può scatenare la curiosità del lettore. In sostanza un valutatore che parli male di un libro, rischia di promuoverlo. Ecco allora il primo paradosso. La critica più feroce è quella del silenzio. Dei libri fasulli ed inutili meglio tacere. Vanno lasciati scivolare nell’oblio.
Senza menzionarli.
Questo paradosso ha anche altre motivazioni. Tra le tante, una mi pare determinante. Si
stampano ormai tantissimi libri (escono 40.000 titoli ogni anno solo in Italia). E' praticamente impossibile segnalare anche solo una piccola parte di quelli più validi (se uno leggesse due o tre libri al giorno, al massimo ne esaminerebbe 1000 all’anno). Che senso ha allora perdere tempo coi testi che non valgono nulla? Meglio limitarsi alle opere interessanti. E al diavolo tutto il resto.
Il problema sorge quando al critico viene chiesto dall’editore, dall’autore, da una libreria o da un’istituzione culturale di presentare o recensire un libro che non vale un fico secco e sul quale si preferirebbe non dire nulla. Forse non lo si vorrebbe nemmeno leggere. Ma siccome le relazioni sono vischiose, al centro come in periferia, non basta far presente all’editore o all’istituzione culturale che si hanno perplessità sul testo. Editori e istituzioni insistono. Ammettono perfino che l’opera da presentare non è un gran che, ma cercano comunque di forzare il valutatore alla presentazione/recensione, adducendo ragioni più o meno nobili.
A quel punto ci si trova davanti ad un dilemma:
(a) rifiutare l’invito con sdegno e consolidare così la fama di snob antipatico e rompiscatole;
(b) lasciarsi irretire dalla marmellosità delle relazioni, dismettere i panni del valutatore, trasformarsi in un marchettaro e parlar bene di un testo insulso di cui si sarebbe preferito tacere.
Nel caso scatti l'opzione (b), il critico è comunque indotto a mettere giù qualche punzecchiatura altesto, a fare un po' di bucce all’autore e ad avvertire i potenziali lettori della pochezza del libro. Il guaio è che non si può essere mielosamente critici e le marchette intellettuali sono pur sempre....marchette. Anche questo risultato è dunque un mezzo paradosso, che non accontenta nessuno.
Conclusioni provvisorie: temo che la logica del mercato spingerà al silenzio le persone più serie che si occupano di idee e di libri e trasformerà gli altri in.... venditori. Purtroppo ad indebolire l’atteggiamento critico contribuiscono anche la deriva populista e demagogica di molta opinione pubblica e il ritorno dei sentimenti religiosi (sia nelle forme più radicali come in quelle più blande e secolarizzate).
Insomma: poco di nuovo nel paese che ha inventato il nicodemismo prima e il trasformismo dopo.
Roberto Cerri