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martedì 19 marzo 2024

PAGINE ALLEGRE — il Blog di Gianni Micheli

Gianni Micheli

Diplomato in clarinetto e laureato in Lettere, da sempre insegue molteplici passioni, dalla scena alla scuola, dalla scrivania alla carta stampata, coniugando il piacere della scrittura con le emozioni del confronto con il pubblico, nei panni di attore, musicista, ricercatore, drammaturgo e regista. Dal 2009 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Toscana riversando nella scrittura del quotidiano le trame di un desiderio di comunicazione in cerca dell’umanità dell’oggi, ispirata dalle doti dell’intelligenza, della sensibilità e della ricerca della felicità immateriale.

Memorie di un clarinettista redento

di Gianni Micheli - martedì 18 ottobre 2022 ore 08:00

Sezione clarinetti dell’OMA
Foto di: Antonio Viscido.

Mi sono diplomato in clarinetto nel 1991. Conservatorio Musicale “L. Cherubini”, Firenze. Inutile cercare paralleli con l’oggi: di quel Conservatorio, delle aule, dei programmi, delle aspettative, una sola cosa non è cambiata: il nome.

Quando, sul finire dell’anno 1990, volli affrontare i rinomati tre pezzi per clarinetto solo di Igor Stravinskij, scritti poco più di un secolo fa, ed eseguirli ad un concorso, mi ritrovai da solo. Il docente che mi seguiva per il diploma fu lapidario: “Io mi fermo a Brahms”. Johannes Brahms, con le sue 2 formidabili Sonate dell’Op. 120 (composte nel 1894), il Trio Op. 114 e il Quintetto Op. 115 del 1891. Tutti lavori di un Brahms maturo, stupendo, emozionante, da brividi eppure… datati XIX secolo.

Così arrivò il diploma. Punta estrema del mio percorso fu la Sonata per clarinetto e pianoforte di Nino Rota. Tenevo tra le mani uno strumento accattivante nella sua modernità, amato da tanti - ricordate Renzo Arbore? E Dylan Dog? - e avevo appena sfiorato il 1945! Tuttavia, con i tre pezzi di Stravinskij, mi ero portato a casa il terzo premio mentre il coetaneo con il primo premio in tasca mi spiegava come funzionava la “respirazione circolare” (di cui in Conservatorio non avevo sentito parlare): tornai a casa con grandi progetti e dopo aver fatto non pochi sputazzi.

Passano gli anni, gli studi si intrecciano, il teatro prima spinge la musica da parte e poi se la porta a letto, finché incontro le intelligenze in fermento della cooperativa Officine della Cultura e mi affianco al loro cammino. Partecipo dapprima, felice, alla nascita della musica insieme al teatro senza sapere chi sia l’uovo e chi la gallina; eseguo, poco dopo, una musica fatta delle culture, delle storie e dei timbri delle nostre città di arrivi e di partenze nella forma e nella sostanza dell’Orchestra Multietnica di Arezzo.

Fin dalla sua fondazione, anno 2007, direttore dell’OMA è Enrico Fink. Devo molto a questo eclettico musicista, come a tutti i colleghi di Officine della Cultura. Gli devo soprattutto il piacere di poter pronunciare, da musicista, senza vergogna, una parola a suo modo strana: “eterofonia”. In Conservatorio, ai tempi del “mio” Conservatorio, “eterofonia” era assimilata a una parolaccia. Qualcosa da non dire e, soprattutto, da non suonare. Qualcosa di poco “armonico”, sostanzialmente stonato, con quel guizzo dell’improvvisazione che mamma partitura tollera a fatica mentre è pronta a farti cadere la bacchetta sulle dita. Un’orchestra in cui tutti suonano la stessa melodia? Una maledizione! Un’orchestra in cui tutti, suonando la stessa melodia, la eseguono un po’ come gli pare con ornamenti a piacere? Un abominio! Con l’Orchestra Multietnica di Arezzo di pezzi in eterofonia ne suoniamo non pochi e, assicuro, tutti “come ci pare”.

Che sia un bene o che sia un male il clarinetto padre e figlio del mio tempo, per me, è iniziato in questi anni e grazie a questi amici e maestri. Iniziato con una parola(ccia) di origini greche, con un’arte esecutiva antica e popolare, con quella spinta all’improvvisazione e al mettersi in gioco con il proprio strumento che è un po’ come buttarsi da una finestra sapendo di non avere ali ma solo un pubblico in platea più o meno accogliente. Una spinta che il Conservatorio non era riuscito a trasmettermi forse per la più semplice delle ragioni: l’aula delle lezioni era al terzo piano e sotto passavano solo auto e turisti.

Nell’estate che si è appena conclusa ho avuto la gioia di far parte di un concerto-spettacolo che ha girato non poco in tutta Italia in compagnia non solo dell’OMA ma anche di un gigante, sebbene giovane, sul quale verrebbe voglia di salire sulle spalle per vedere non dico più lontano ma almeno coi suoi stessi occhi, sarebbe già qualcosa: Stefano Massini. In quel progetto, dal titolo “Quando sarò capace di amare. Massini racconta a Gaber”, Stefano, narratore instancabile, dichiara al pubblico un pensiero che condivido: di attendere con ansia che anche Gaber, Luporini, De André entrino a pieno titolo nelle antologie della letteratura italiana. Magari! Ma quando Gaber, Luporini e De André entreranno nei metodi per gli strumenti musicali? In una sorta di “Lefèvre” del XXI secolo, per chi ha pratica dei metodi per clarinetto? Giorgio Gaber, Fabrizio De André ma anche Dario Brunori, ad esempio. Avevo quasi le lacrime agli occhi mentre ero parte di quella linea armonica che racconta: “Te ne sei accorto, sì | Che parti per scalare le montagne | E poi ti fermi al primo ristorante | E non ci pensi più” (da “La verità). Ed io ci penso ancora. Ho avuto più volte le lacrime agli occhi, quest’estate, cercando di dare suono e colore, con un clarinetto, ad alcuni tra i temi di Gaber che più hanno raccontato il mio sentirmi umano: “La parola io | È uno strano grido | Che nasconde invano | La paura di non essere nessuno” (da “La parola io”); e ancora “E nel silenzio delle notti | Con gli occhi stanchi e l'animo gioioso | Percepire che anche il sonno è vita | E non riposo” (da “Quando sarò capace di amare).

Non so se i Conservatori di oggi riescano a trasmettere questa incredibile gioia della musica leggera. Questo ampio e variegato piacere, difficilmente descrivibile come tutti i piaceri che sconfinano nel godimento, che si ottiene mescolando nel calderone creativo l’aspetto magico simbolico metaforico della parola, della poesia, della narrazione, con la vibrazione di un’ancia, dell’aria, del tempo. Spero di sì… per la gioia dei musicisti di domani. Io, dopo trent’anni di studio e pratica sul palcoscenico, sono lieto d’aver avuto l’occasione di viverlo e il tempo di descriverlo mentre, citando un altro poeta del nostro tempo che non stonerebbe in un’antologia, Paolo Benvegnù, mi fermo “un istante per considerare | che il respiro è un dettaglio che ci rende uguali | come cerchi nell'acqua che non sanno nuotare e si infrangono” (da “Cerchi nell’acqua”).

Gianni Micheli

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