Colpa & merito
di Marco Celati - giovedì 29 agosto 2024 ore 08:30
La vita non ha colpa. Non dovrebbe. Nessun peccato originale. La cattiveria è una colpa, far del male, vivere male, ma dipende da noi. Da noi soltanto: uomini, donne. Forse natura. È un merito la vita? Non ne sono sicuro. E di tanto o poco che mi corrisponde ancora non so, se sia più il merito o la colpa. A volte penso: non c’è bisogno di parole o di pensieri. Non c’è bisogno di gente, di niente e quel che è stato è stato. E cosa?
È stato il frullare dei passeri sugli alberi del bosco, sono state le geometrie mutevoli degli storni in volo, le magnolie che si accendono di foglie e fiori, le piogge d’estate, è stato il brontolio dei tuoni e il sole pallido tra le nubi ventose, è stata l’ombra della quercia nella radura. Sono stati il frumento ondeggiante, il frutteto di pesche nel podere e il melo carico di frutti da spezzargli i rami. Il chiamarsi dei cani e degli uccelli per l’aria e dei cetacei in mare. Il correre dei bimbi. Le albe ed i tramonti. La luna che appare. Sono stati sangue, unghie sporche, sudore e orgasmi, perfino amore che è ciò che si dimentica. È stato il tetto a dente di sega dell’officina, il negozio al Corso, l’atrio del Comune. L’anelito dei popoli, il grido della Terra. E tutto questo che è vivo e ho sentito e visto, resta nell’anima e negli occhi. Senza merito né colpa, è stato vita. E vale.
È stato in Agosto, subito nel primo pomeriggio, sole alto, caldo soffocante. Come quest’anno non s’era mai sentito, che sembra la versione estiva del Venditore di Almanacchi di Leopardi e magari era vero e magari, noi passeggeri, non c’era da augurarselo. Nella piccola Stazione eravamo poche persone ad aspettare il treno. Noi tre, un uomo con un trolley, un ferroviere e una ragazza. Tutti ci riparavamo dal solleone: noi nella sala d’aspetto, l’uomo e il ferroviere all’ombra, sulle panchine addossate al muro della Stazione. Tutti, tranne la ragazza che stava seduta sotto la pensilina trasparente del secondo binario, dove era atteso l’arrivo del treno. In pieno sole, sfidando l’afa, ci dava le spalle, china sulla valigia. Sembrava mangiasse qualcosa. Il tempo, nel pomeriggio assolato, scorreva lento, irreale. Finché l’altoparlante annunciò il nostro treno e tutti scendemmo e risalimmo il sottopasso per raggiungere il secondo binario. Tranne il ferroviere che attraversò i binari a piedi: loro lo fanno. L’uomo, rollando il suo trolley, si incamminò verso la direzione di provenienza del treno e noi invece, che accompagnavamo Clara in partenza, andammo ad aspettarlo sotto la pensilina, accanto alla ragazza, che rimase nella stessa posizione, seduta, curva, di spalle. Quasi custode di un suo mistero.
Eravamo accanto a lei e pensai, va bene la riservatezza, ma in questo caso si rasentava la maleducazione. Lo pensai io, il principe dei maleducati, senza alcuna autorizzazione, come avviene per i pensieri in libertà che non sono esattamente la libertà di pensiero. Però, se non proprio un saluto, uno sguardo d’intesa, un semplice cenno, almeno soltanto voltarsi sarebbe stato naturale, appiccicati come eravamo sotto quella pensilina. La ragazza si agitò un po’, forse disturbata dagli sguardi che, per un sesto senso, avrà sentito dietro la schiena, ma restò in quella posizione fino al nuovo annuncio dell’altoparlante e allo stridore dei freni del treno sul binario. A quel punto scattò in piedi, appariva alta, magra, si muoveva un po’ ondeggiante, girò appena la testa e allora vidi il suo volto. Gli occhi si incrociarono appena e i suoi, una fessura, sembravano dirmi, ecco, hai visto ora, contento? Cosa c’hai da guardare? E “stronzo” ci sarebbe stato pure bene, ma lei sarà stata più educata e gentile. La faccia era irregolare, un lato del viso e della fronte erano dilatati, abnormi rispetto al resto del volto. Stava di spalle per pudore, forse non per vergogna, ma perché noi, io, l’avremmo fatta vergognare.
Salì in fretta sul treno con la valigia, la sua figura appariva e scompariva a intermittenza dietro i finestrini del treno, mentre s’avviava verso la coda, negli scompartimenti dove si intravedevano molti posti vuoti, cercando forse una solitudine lontana da occhi indiscreti. Abbiamo salutato Clara con cenni della mano, mentre il treno lasciava la Stazione. E io, che confesso di non riuscire a guardare nemmeno le Paralimpiadi -non ne ho cuore- che mi confondo con il male di vivere, sono rimasto come un cretino a chiedermi, perché quel volto deforme? Una violenza? Un incidente? Uno spregio della natura, verso una bella ragazza? Una violenza sarebbe efferatezza, un incidente avversità. Se fosse la natura, la sua colpa matrigna sarebbe netta. Anch’essa imperdonabile. Come la nostra di guardare, di fissare, di giudicare in base a modelli e canoni estetici e non etici. E il merito contro tanta colpa e tanto male sarebbe tirarci fuori qualcosa di buono, sarebbe solo vivere.
Marco Celati
Pontedera, Agosto 2024
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P.S. Devo il finale ad un’intervista rilasciata da Amy Winehouse. In occasione dell’uscita di “Back to Black”, le chiesero perché scrivesse canzoni e lei rispose che non scriveva per essere famosa, scriveva canzoni perché non avrebbe saputo cosa fare altrimenti. “Devo tirare fuori qualcosa di buono dal male”. E se lei non c’è riuscita, la sua voce e le sue canzoni, sì.
"Back to Black", Amy Winehouse
https://youtu.be/0VvkWvl_aTo?si=v3VBW_vSGZyenb79
Marco Celati