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martedì 19 marzo 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Moro

di Marco Celati - giovedì 08 dicembre 2022 ore 08:00

Alla vita occorre amore. Amore ha a che fare con cuore. E non solo. Il cuore sta nel petto. Petto o coscia? Il petto va bene, grazie. Ma anche la coscia ha il suo perché. Che poi a me piace l’ala. Ci giocavo all’ala da ragazzo: con il sette, essendo destro. Ma pure con l’undici, alla sinistra, a piedi invertiti. Piedi così così, testa pure. Poi passai centravanti: maglia numero nove. Bei tempi. Insomma belli. Ricordi. E ora eccomi qui, taciturno e scrivente compulsivo. So che non c’è oro alla fine dell’arcobaleno, c’è solo merda e piscio, ma saperlo mi rende libero. Jack Kerouac, “On the Road”: il film, nel libro la frase non si trova. A me invece ha sempre reso triste. Gioventù, rivoluzione, strada, arcobaleni e il desolato stillicidio della vecchiaia. La vita. Ma nella vita non c'è altro che viverla, e basta. Ancora Kerouac. E io chissà che mi credevo! Ma è quella nuvola bianca appesa nel cielo il capolavoro del mondo. E il bene dato ed avuto, il bene voluto. Alla vita occorre amore.

Che fortuna morire nel sonno, passare inosservati dalla vita alla morte. Stamattina mi sono rinvenuto con questi pensieri. Sopravvissuto. Mi succede spesso, nel dormiveglia al mattino, di lasciare che la testa vaneggi, giri libera a vuoto ricaricandosi per il giorno che viene, il lavoro, la vita. Non dormo, ma non sono sveglio del tutto ed è come comandare i sogni o consentire che arbitrarie associazioni di idee comandino me. Mentre i ricordi, gaglioffi, affiorano casuali a confondere la mente, accompagnandomi fuori dal sonno, fino alla logica ripresa della realtà. Si scivola nel buio e dal buio ci si riscuote.

Che fortuna morire nel sonno lo dice Aldo Moro. O meglio, è una frase a lui attribuita nel film “Buongiorno, notte” o “Esterno notte”. Entrambi di Marco Bellocchio, il secondo migliore. Non ricordo bene. Forse sono parole pensate nella prigionia delle BR, sotto il totale possesso di quegli allucinati sanguinari. Bellocchio dà del rapimento del Presidente della DC una versione cinematografica più recente e intimista, rispetto al rigoroso, “vecchio” film di Giuseppe Ferrara, “Il caso Moro”, nobilitato dall’interpretazione di Gian Maria Volonté. E non parliamo di “Piazza delle Cinque Lune” di Renzo Martinelli che trasforma in un thriller quei tragici eventi. Una versione complottista, non del tutto improbabile, che piaceva ad un caro amico scomparso. Uno dei pochi ad essere amico e giornalista.

Su Aldo Moro ricordo una barzelletta di mio padre: Moro -Ministro degli Esteri nei sequenziali governi democristiani del tempo- incontra Hailé Selassié, Imperatore d’Etiopia e si presenta: piacere, Aldo Moro. Il Negus gli risponde: no, io aldo moro, du piccolo bianco! Non ricordo se fra piccolo e bianco ci fosse stato anche un epiteto per rendere la battuta più salace, il babbo poteva pure esserselo concesso, era democristiano. Io comunista e lui moroteo, ma si questionava lo stesso. Chi ha rovinato l’Italia? Moro, ma ‘un lo di’o! Poi quelle battute non fu più possibile farle.

Aldo Moro venne sequestrato da un nucleo armato delle Brigate Rosse, il 16 marzo 1978, in via Fani, a Roma. Gli uomini della sua scorta, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera furono barbaramente trucidati: poliziotti e carabinieri, le “teste di cuoio” di Cossiga -Ministro degli Interni e scritto con la K- nella irriverente e spietata terminologia delle BR. Il Presidente della DC, dopo 55 giorni di prigionia, fu ucciso il 9 maggio. Il suo corpo, crivellato di colpi, fu fatto rinvenire nel bagagliaio di una R4 rossa, parcheggiata in via Caetani, a poca distanza da via delle Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista Italiano, e da Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana.

Lo dico? Lo dico. Anzi lo scrivo, che è meglio. O forse peggio. Mai stato democristiano, ma attribuire in sostanza, se non la colpa, la responsabilità morale della morte di Moro alla DC, non credo sia giusto e nemmeno vero. Invece l’ottimo Bellocchio, che mette in scena il sequestro dal punto di vista delle BR e in qualche modo “dall’interno” del rapimento, lo lascia intendere. Anche il PCI fu per la fermezza e dunque, responsabili pure loro? Favorevoli a trattare, in nome di una posizione “umanitaria”, erano i socialisti. Penso che Moro non poteva essere salvato trattando, né che fosse possibile il “riconoscimento” rivendicato dalle BR o la liberazione dei brigatisti prigionieri. Proletari in guerra, prigionieri politici, ma de che? Gambizzavano, ferivano, uccidevano in nome di supposte, inesistenti rappresentanze popolari o rivoluzioni comuniste. Fanatici, farneticanti sanguinari, complementari alla strategia eversiva nera, ecco cos’erano. Ecco cos’era il “terrorismo rosso”. E non c’entra niente il fatto che il Paese non fosse né giusto, né politicamente avanzato. Gli assassini sono assassini. Non esiste una loro supposta generosità. Moro non fu liberato, come nel sogno con cui “Esterno notte” si apre. Fu assassinato. E che ci siano stati contrasti sulla sua uccisione all’interno delle BR può essere solo una presa d’atto che non ne mitiga l’atroce efferatezza e il giudizio.

Moro era solo e più avanti: la sua visione guardava al superamento dell’equilibrismo democristiano di cui pure era stato parte determinante. Coinvolgere nel governo del Paese il PCI che rappresentava allora il 30% circa della popolazione, come la DC, andando oltre il centrosinistra storico, quello con il Partito Socialista. E ciò era inviso sia agli Stati Uniti che all’Unione Sovietica e trovava contrasti anche all’interno della stessa DC. Come nel PCI. L’intellighenzia aveva già formulato, oltre motivati e severi giudizi, colpe e condanne: “Todo Modo” di Elio Petri, dal libro di Sciascia -sempre con Gian Maria Volonté- era del 1976. Impossibile sapere e dire se tutto ciò e questo isolamento abbiano avuto conseguenze. Districarsi fra possibili o supposti intrighi, discernere tra palesi, colpevoli inadeguatezze e fatali ritardi. Ma la responsabilità della fine di Aldo Moro in prima ed ultima istanza è e resta delle Brigate Rosse. Dei suoi componenti, pentiti o meno, dissociati o meno. Non perdonati, ma in gran parte resi liberi negli anni da quel Paese democratico che pretendevano di abbattere.

Non lo dico da “politico”, che non sono o non sono più come allora. Lo sento da persona libera nel giudizio. E a cuore aperto. Tempo fa avevo scritto un’autobiografia un po’ vera, un po’ inventata, un po’ seria e un po’ no, sulla stirpe dei Celati. Un amico storico mi aveva fornito un documento che risaliva il mio albero genealogico fino al settecento. Ne avevo tratto un racconto sui miei modesti antenati e sulla progenie che ne era derivata, intitolato “Discendenza”. Appunto. Con il passato me l’ero cavata con superficiale leggerezza e, tutto sommato, benino. Il passato è lontano. Invece nel presente mi sono perso. Lost in the present. Il presente ci appartiene e si dilata, difficile starne fuori con giudizio. E proprio la vicenda di Moro era stata lo spartiacque della difficoltà di interpretazione. Alla fine avevo immaginato lo svolgimento della storia come una sorta di sliding doors. In quella ufficiale Moro era stato ucciso, con tutto quello che sappiamo e non sappiamo. In un’ideale versione invece Moro era sopravvissuto: il giorno dell’attentato si era fermato in Chiesa, aveva fatto tardi, aveva percorso un itinerario inconsueto, una scorciatoia, per raggiungere il Parlamento dove l’ennesimo Governo Andreotti, il quarto, riscuoteva la fiducia, con l’astensione del PCI. E così la sua auto e quella della scorta, non blindate, prive di protezione, non erano state mitragliate. Nessuno si era fatto male. I brigatisti avevano aspettato invano. La sera con le finte uniformi da ufficiali dell’aeronautica erano andati ad un ballo mascherato. Il terrorismo aveva fallito, era finito. Ucciso dal ridicolo.

Pochi eventi come il sequestro di Moro e la sua tragica fine sono stati responsabili di un cambiamento radicale del corso della storia, frenandone e invertendone il progresso. Se Moro nel 1978 non fosse morto la politica italiana avrebbe salutato le prime prove di partecipazione dei comunisti al governo del Paese. Forse una moralizzazione della politica e delle modalità di gestione del potere ne sarebbe conseguita, frenando il dilagante malcostume. E se Enrico Berlinguer -uscito miracolosamente illeso nel 1973 da un più che sospetto “incidente” d’auto avvenuto in Bulgaria- non fosse stato colpito dall’ictus che lo condusse alla morte, durante il comizio per le europee nel 1984 a Padova, il “compromesso storico”, si sarebbe affermato, avrebbe seguito il suo corso. Quale? Quali trasformazioni avrebbero avuto il PCI e la DC? Quali gli altri partiti dell’arco costituzionale? E la “prima” Repubblica? Non saprei dirlo, non ne sono capace. Per questo con i se e i ma non si fa storia. Anche se la vita e la storia sono piene di sé è di ma. Certo, magari dopo Pertini, non avremmo avuto come Presidente Cossiga, che sfiga! Probabilmente nemmeno Craxi, né Di Pietro. E nemmeno Berlusconi a sdoganare la destra post fascista. Chissà se il PD. Ma rimanere comunisti e democristiani al giorno d’oggi non sarebbe stata cosa.

Alla fine restano gli anni, i documenti, gli scritti. Anche quelli che Moro scrisse nella “prigione del popolo”, sotto il controllo dei suoi rapitori che si ersero a tribunale, decretandone l’assassinio. Sono inimmaginabili la costrizione e la sofferenza. Il dolore della fine presagita. La lacerante, umana richiesta di salvezza. E in mezzo e contro a tanta ferocia restano di Aldo Moro la mitezza, l’amore e la poesia dell’ultima lettera alla moglie: “Mia dolcissima Noretta…Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”. Se in quegli anni di piombo e a seguire ci fosse stata luce, anche per noi e il nostro Paese sarebbe stato bellissimo. Alla vita occorre luce.

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati